giovedì 8 luglio 2010

Gli scienziati che hanno scoperto nel Vibonese il 29° vulcano italiano illustrano gli esiti della ricerca: «Nessun pericolo, ma grande opportunità»

Non ha ancora un nome, ma una storia lunga centinaia di migliaia d’anni, durante i quali ha fatto la sua comparsa a largo di Capo Vaticano, e oggi, silente e sommerso dal mare, sta spingendo gli studiosi a formulare nuove ipotesi scientifiche per riscrivere i modelli geodinamici del Tirreno.
Il ventinovesimo vulcano italiano, scoperto recentemente da un gruppo di ricerca f
ormato da studiosi dell’Università della Calabria e dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, è stato “presentato” oggi alla stampa, nel corso di un incontro con i giornalisti promosso dalla Provincia di Vibo Valentia.
La notizia della sua scoperta, già diffusa alcune settimane fa, è stata esposta in maniera più
approfondita col supporto dei dati rilevati dagli scienziati, con la valutazione di eventuali rischi per l’area ed anche delle possibili implicazioni economiche legate allo sviluppo di forme di turismo alternativo e allo sfruttamento dei giacimenti minerari effetto della sua presenza.
Alla conferenza stampa hanno preso parte il presidente della Provincia Francesco De Nisi, l’assessore all’Ambiente Martino Porcelli, i ri
cercatori Guido Ventura (Istituto nazionale di geofisca e vulcanologia), Rocco Dominici e Paola Donato (entrambi del dipartimento Scienze della Terra dell’Università degli studi della Calabria), ed i docenti Unical Rosanna De Rosa e Gino Mirocle Crisci.
A rilevare la presenza del vulcano, hanno spiegato gli studiosi, fu
alcuni mesi fa la scoperta a San Costantino Calabro, nel Vibonese, di vasti depositi di pomici di uno spessore di circa 6,5 metri (foto in basso), gli stessi depositi riscontrati poi anche nella Piana di Gioia Tauro, dove in alcune aree raggiungono lo spessore di 10 metri. Segno inconfondibile di una grande eruzione pliniana (cioè esplosiva, come quella del 79 d.C. a Pompei).
Una traccia decisiva che ha convinto gli scienziati a continuare l’indagine attraverso rilevamenti aereomagnetici: un elicottero dotato
di sensori ha sorvolato per giorni lo specchio d’acqua compreso tra la costa e le Isole Eolie, registrando le differenze nel campo magnetico determinate dalla presenza di minerali ferrosi tipici delle aree vulcaniche. Alla fine, elaborando i dati raccolti, si è scoperto che a 120 metri sotto il pelo dell’acqua, in corrispondenza di quella che sino ad oggi era definita dalle carte nautiche come una secca, c’è la sommità di un vulcano dalla forma oblunga (foto al centro) che risale ad un periodo compreso tra 700mila e un milione di anni fa, più antico delle Isole Eolie e quindi diverso per genesi.
La sua posizione coincide con un tratto della faglia che nel 1905 diede origine a un distruttivo terremoto che colpì la Calabria mietendo centinaia di vittime. La stessa faglia che oggi continua a muoversi al ritmo geologico di pochi millimetri all’anno, ma che alla fine, tra milioni di anni, taglierà letteralmente in due la Calabria.
«Sia chiaro, il vulcano di Capo Vaticano è ormai assolutamente inoffensivo - ha sottolineato Guido Ventura, coordinatore del gruppo di ricerca -. Questa scoperta non cambia nulla nella mappatura di pericolosità sismica della Calabria. Ma il “nuovo” vulcano può offrire una motivazione in più per perseverare nello studio di quest’area e intensificare il monitoraggio della faglia».
Opportunità scientifica, dunque, ma anche l’occasione per innalzare il grado d’allerta in una regione ad altissimo rischio sismico, come ha sottolineato De Nisi. «Nonostante le evidenze
scientifiche ed i riscontri storici, manca in Calabria una concreta politica della prevenzione - ha affermato il presidente della Provincia -. Nulla si è fatto in passato e nulla si sta facendo oggi su questo fronte. Eppure, prevenire i fenomeni naturali che possono avere conseguenze disastrose non è soltanto un dovere dello Stato nel suo complesso, ma è anche conveniente economicamente, perché si impiegano molte più risorse per far fronte alle emergenze di quante ce ne vorrebbero per prevenirle».
Oltre agli aspetti più squisitamente scientifici della scoperta, gli studiosi hanno evidenziato anche alcune importanti opportunità di sviluppo per il territorio, a cominciare da quello che potrebbe rappresentare un vero e proprio tesoro a portata di mano: ricchi giacimenti di manganese, un metallo insostituibile in alcune produzioni siderurgiche (serve soprattutto per rinforzare l’acciaio), che solitamente abbonda negli abissi oceanici dove, però, è difficile e costoso estrarlo. I ricercatori, inoltre, hanno ipotizzato anche forme di turismo alternativo, puntando sulla grande attrattiva scientifica della scoperta a livello internazionale.
Ma per continuare a studiare il vulcano di Capo Vaticano servono risorse, perché i rilevamenti aereomagnetici rappresentano soltanto il primo passo su una strada costellata di laboratori, test, carotaggi, simulazioni al computer. Qualora i fondi non arrivassero, il rischio, ancora una volta, è che l’intera ricerca sia portata all’estero.
Per ora, ad occuparsi del vulcano sarà la Marina militare, che dovrà scegliere un nome ed effettuare nuovi rilevamenti per ridisegnare le carte nautiche dell’area.
edg

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